Luna

A distanza di 50 anni dalla “passeggiata così prosaica e anche un po’ stupida degli americani” come ricordò Pasolini, nulla hanno potuto quei 384.400 km di distanza, per rarefare la dimensione onirica e surreale della Luna, sia essa poetica, avventurosa, riflessiva, lunatica: l’uomo insegue ancora questa sfera lattea sospesa e confidenziale. La Luna, “figlia di Latona incensa” per Dante, “immagine lucente, quando piena più risplende, bianca. Sopra la terra” dai frammenti di Saffo, non ha mai assottigliato la sua traslucida sostanza di sogno, mai rinunciato alla magica dimensione della fuga dove decantare speranze, desideri e dolori, tanto vicina da trascinarla in giardino come fa Leopardi in “Ode a Melisso”, testimone del volo d’amore nel blu dipinto di blu per Bella e Marc Chagall, accecante negli occhi sperduti di Van Gogh, è ferita da Galileo per amore della conoscenza e accecata da Georges Méliès nel volto surreale, profondamente struggente in Beethoven e colorata da tocchi picchiettati nella celebre suite di Debussy.

Il rapporto con la Luna è una pagina bianca su cui scrivere le caleidoscopiche relazioni che ivi si intrecciano, sospese tra fascinazione, attrazione, venerazione e satira, delusione per il suo suolo sterile, paura e superamento del limite.

La notte tra il 20 e il 21 luglio 1969 Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins portarono a termine il viaggio sulla Luna, la metafora del cammino dell’uomo, il τόπος di Odisseo che supera le Colonne d’Ercole e, insaziabile, dà senso al percorso e non alla meta. Fu Luciano di Samostata nel II sec. D.C. a infarcire di fantasia la sua prosa nelle Ἀληθῶν Διηγημάτων, le “Storie vere”, nel descrivere il primo viaggio letterario sulla Luna molto prima dei film, dei libri e dei fumetti di fantascienza che hanno costellato il novecento. Alla ricerca immaginativa si è sempre affiancata quella scientifica, con il punto di arrivo-partenza in Galileo che ha analizzato meticolosamente e decifrato il volto della superficie lunare, dando avvio alla cartografia che si è arrogata il diritto di nominare ogni cratere e ogni mare, puntellando di nomi terrestri ciò che appartiene allo spazio siderale.

Ma la luna mantiene per noi mediterranei il triplice volto di Ἑκάτη, la divinità psicopompa, unione di maschile e femminile, simulacro di tre corpi e di tre nature, protettrice dei trivi, le tre strade che presiede per illuminarne la via.  Ἑκάτη- Luna è benevola come Perseide, la luna nuova che veglia sul sonno e accarezza gli amanti, governa i cicli e il tempo, solleva e illumina il mare come Artemide, personificazione della luna crescente, muta di umore, volubile come Selene nella sua fase calante, quando si pronunciano gli incantesimi e si accendono i tormenti. Ciascuno ha guardato il suo volto e ha tessuto con essa un mutevole colloquio dandole un aspetto e un nome femminile: Selene, Luna, Diana, Chandra, Soma, Khonsu, Thoth e Tanit, Dae-Soon, Regina della notte, ai piedi dell’Immacolata Concezione. Alla luna dedicano una pausa creativa Renzo Buttazzo e Daniele Dell’Angelo Custode, due artisti che hanno scelto la scultura come cifra narrativa della loro poetica. E’ un dialogo a distanza per forme e materiali, pietra leccese e marmo per Buttazzo, ferro, acciaio e corten per Dell’Angelo Custode ma la compenetrazione dialogica è modulata dalla luce: volumetrica e plastica nelle superfici opache e scabre, fuggevole ed evocativa nei territori rilucenti del metallo e nei mondi interiori delle sfere di marmo. Due interrogativi, la stessa soluzione immateriale nell’ecclissi della ragione e nell’alba della poesia

Dall’Eclipsis inizia il percorso di Renzo Buttazzo, dittico bidimensionale in pietra leccese vulcanizzata in cui le forme archetipiche del cerchio e del quadrato sono le facce speculari della riflessione sugli opposti. «Ciò che è opposizione si concilia, e dalle cose differenti nasce l’armonia più bella, e tutto si genera per via di contrasto» esplicita Eraclito nei suoi frammenti. La Coincidenza Oppositorum è il fondamento concettuale della dialettica dell’opera che, in un nuovo umanesimo astratto, si interroga sul concetto stesso di quadratura del cerchio. E il π greco vale come unione gheometria-terra e trascendente-irrazionale nella dimensione in cui non ci sono polinomi di cui esso può essere radice. Il π greco non lo si può intrappolare in nessuna sequenza numerica finita se non nella dimensione dell’arte come ci ricorda l’uomo vitruviano di Leonardo.

La sperimentazione è una condizione dello spirito e Renzo Buttazzo accarezza intimamente la pietra per ricercare la memoria della Terra. Il suo è un viaggio inverso, nelle viscere della madre, nelle radici che, sole, consentono la risalita. Come un rabdomante, affronta la ricerca flettendo la pietra e sfidandola a riemergere per impregnarla di atmosfera.  Chandrama segna un nuovo mondo da esplorare, un nuovo materiale da scandagliare. Come il sanscrito, la lingua antica da cui deriva Chandrama la luna, Buttazzo ritorna alla storia e recupera il marmo, appellandosi alla storia millenaria della scultura fino a ricreare un astro personale da possedere.  Chandrama è il ritratto della luna, sospesa sulla parete, modulata in chiaroscuri plasmati in involuzioni e affioramenti, evocativa eppure solida nella sua concreta matericità.

Aκμή della nuova ricerca appare Andromeda, una sfera cava di marmo che accoglie la luce parcellizzata in opalescenze siderali. Ma può il marmo, la materia solida per eccellenza, ridursi ad uno spessore millimetrico per far posto alla luce? Solo nella dimensione dell’arte si può ricucire l’antinomia tra il mondo reale e l’impossibile e raggiungere attraverso l’artifex le galassie più lontane, inanellarsi dei cerchi di Saturno e raccontarci che la meta è solo una pausa del viaggio.

Maria Agostinacchio